Eutidemo

Filosofia nella vita, Vivere la filosofia nel concreto

« Older   Newer »
  Share  
dodi li
view post Posted on 20/6/2008, 11:30





Mando questo post di Carolus Felix dove la pratica filosofica è espressa e vissuta a pieno.

da Carolus Felix
------------------------------------
Titolo: Il gioco ritrovato
------------------------------------
A concludere questa mia piccola trilogia di inizio estate, quasi come in un invito, presento oggi qualcosa che, dopo che si è consapevoli di poter perdere tanto, è possibile, anzi necessario, ritrovare.
Siamo tutti esposti ad un destino di sofferenza nel quale cerchiamo di renderci accorti della possibilità che il patire non sia mai fine a se stesso, ma che ci porti invece a capire di più e meglio, ma, nonostante ciò, non ci rassegniamo mai alla sconfitta, all’eventualità cioè che la stessa sofferenza rappresenti l’orizzonte ultimo della nostra vita. Perché avvertiamo, in ogni caso nitidamente, anche nelle riposte pieghe di un animo travagliato da mille dubbie ed avversità, che noi, in verità, siamo destinati ad altro: ad una gioia più pura e profonda. Solo in tale dimensione di vera gloria infatti riusciamo a superare la depressione della finitudine e la solitudine esistenziale, scoprendo la nostra vocazione all’eterno.

Fin di tempi antichi a propiziare la gioia come incontro con l’altro e con il supremamente Altro, si sono vissute esperienze festive, feriali, in cui al sacro si associava il ludico: gli spettacoli sacri erano quelli che accompagnavano il tempo della rinascita, della catarsi e del rinnovamento, non solo della natura ma anche delle comunità umane. E nulla più del gioco, dell’invenzione, dell’artificio poetico caratterizzava gli eventi festivi e occorreva per manifestare e costruire tali ricorrenze.
Da sempre la dimensione del gioco unifica e rende l’umanità partecipe di una sorte condivisa in cui la pace si afferma ed il tempo è sospeso, tanto che proprio dalle gare, dai giochi festivi olimpici, è nata la prima idea occidentale di scandire il tempo, di distrarre Cronos dalla sua famelica ossessione, in un ritorno periodico di un’eternità ludica destinata a non tramontare.

Il Cristianesimo, pur introducendo la sua concezione lineare ed escatologica della storia, non ha potuto però fare a meno, quasi per un’eco di ritorno, dei riti circolari festivi che erano già appartenuti all’epoca che lo aveva preceduto con le sue processioni, le sue feste patronali, i mille e più santi e beati da invocare, le cerimonie con le gare e le benedizioni degli animali, persino con i suoi rosari cristallizzati nell’eternità del loro circolo di litanie sacre.
Ed il teatro cosa è mai stato se non, da sempre, il luogo magico del circolo sacro con cui, nella dimensione ludico sacrale, anche l’evento tragico, come quello comico, viene ricomposto catarticamente nel ludus rappresentativo?
Anche oggi i mondiali di calcio vedono fermarsi intere nazioni, quasi come fossero partecipi di una sorta di rito collettivo ipnotico e, almeno nella fase iniziale in cui ogni rappresentanza compete con tutte le altre, si assiste quasi ad una sorta di sospensione globale. Le grandi guerre non sono conciliabili con i grandi giochi, ed essi, durante i conflitti, restano sospesi, come i sogni perduti da ritrovare nel tempo della pace rinnovata.

Ogni gioco ha le sue regole, ma la vera essenza del gioco non consiste mai nelle regole in se stesse, quanto piuttosto nel confrontarsi e nel tentare di violarle. L’abilità del giocatore più scaltro è infatti quella di giocare sull’orlo delle regole, come un equilibrista corre su di una corda tesa sull’abisso, e la prestazione più elevata è sempre quella che, pur non violando le regole contribuisce a spostare il loro limite di applicazione un po’ oltre, battendo il record, e con ciò dimostrando che la regola più alta e sublime resta quella della stessa capacità umana di varcare i limite senza opporsi alla regola. E non c’è peggior giocatore di quello che, pur di vincere, piega le regole al suo interesse, poiché in tal modo mortifica la stessa possibilità di giocare e competere
Il gioco però, da una parte esprime l’opposto alla sottomissione a regole, e dall’altra ci vincola invece in maniera ancor più radicale ad esse, quando ci mettiamo in gioco e siamo portati ad interpretarle come fa il musicista con il suo spartito.

Scrive Heidegger: “Il gioco etimologico, che esce dall’abituale per abitare in quello che già una volta fu il parlare appropriato del linguaggio, viene immediatamente preso per un’infrazione alla norma. Esso viene stigmatizzato come un arbitrio, come un facile gioco. E tutto questo fa parte dell’ordine delle cose, dal momento che si considera l’abituale come l’unica norma oggettiva e non si è assolutamente capaci di contenere l’abituale nel suo carattere di abitudine. Questa vertigine di fronte all’abituale, posta sotto l’egida del preteso sano intelletto umano, non è casuale, né tale da potere essere sottovalutata. Questa vertigine di fronte all’abituale fa parte dall’alto e pericoloso gioco in cui l’essenza del linguaggio ci ha messi in gioco”

Il linguaggio è da sempre il gioco più interessante, divertente e pericoloso, esso ha le sue regole, ma reca in sé anche la sua follia, la sua mania divina del poetare che si disvela proprio quando trabocca dal calice delle regole comunicative che a stento vorrebbero contenerla.
Il Lògos è gioco nella sua accezione originaria di linguaggio e pensiero al tempo stesso e coincide, prima delle sue pretese fondanti ed autoreferenziali oltre che schizoidi, con l’abisso eracliteo dell’aiòn (tradotto da Heidegger con Weltzeit: il tempo del cosmo), è un fanciullo divino che gioca a dadi, e che nel suo fare ed esprimersi, conserva sempre una razionalità incommensurabile, inconciliabile cioè con i limiti di una ragione fine a se stessa.

La vera sapienza ci appare quindi sempre come un gioco di fanciulli; lo diceva Eraclito "Il tempo è il regno di un fanciullo che gioca tirando i dadi" e anche Matteo 18, 1-5, o persino Nietzsche: "Il fanciullo è innocenza e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota che gira da sola, un primo moto, un sacro dir Sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per i mondo conquista da sé il suo mondo", e che dire di Minucio Felice che inizia il suo dialogo Octavius proprio prendendo spunto da una passeggiata su di una spiaggia in cui i fanciulli si divertono a fare rimbalzare ciottoli sull’acqua?
Ecco, in questo grande oceano telematico, le nostre parole rimbalzano sulle onde, poi piano, si perdono in lontananza e restano solo un gioco. Gioco e follia coincidono sempre, e il matto così come il giullare, è colui che mai rinuncia a giocare, mai ad essere considerato folle, pur rendendo la sua follia un richiamo: un sonaglio divertente per il popolo e velenoso per il potere.

Si comincia a diventare tristi ed adulti depressi quando si smette di giocare, quando non si “sa” più giocare o si vuole giocare da soli a costo di rovinarsi la vita, e non di rado quando si ha paure di giocare o se si teme che gli altri stiano giocando con noi.
Ritrovare il gioco vuol dire dunque ritrovare noi stessi, non solo nell’euforia collettiva di un rito sportivo, a Natale, a Carnevale o a Ferragosto, ma di più e ancora in una vita quotidiana arricchita dal sapore dell’ironia e dell’autoironia. E’ un sapore che ci fa gustare la vita nella sua indeterminatezza e che ha l’aroma di quegli ingredienti che, proprio nel loro mescolarsi, arricchiscono le loro specifiche essenze, rendendole così singolarmente più gradevoli.
E’ un gioco di squadra in cui ogni squadra si forma e vince solo non escludendo nessuno.

Titolo: Ma la guerra non è mai un gioco
---------------------------------------
E' vero che il gioco può essere molte cose, anche simulare una guerra, ma un gioco che sia tale, non può mai coincidere con la guerra, anche se oggi il rischio della tecnologia avanzata e dell'occultamento di chi scaglia ordigni di morte può indurre a pensarlo.
La guerra resta, come l'annientamento e la distruzione, la cosa più seria e meno giocosa che esista; essa parte proprio dal presupposto che non si possa più giocare, che non si possa più scherzare ed intendersi.
C'è alla sua origine una profonda paura che sfocia in un desiderio smodato di potenza, è l'angoscia che il divenire possa recare, con tutte le sue connotazioni politiche economiche e sociali del caso, l'annientamento: essa è dunque, in ciò, patologia allo stato puro.
Il gioco presuppone invece che nessuno debba mai morire o essere annientato, perché anche la sconfitta, per gioco, è solo maschera che cela il gorottesco, l'assurdo e, con esso, la risata, la rinascita e la perenne rivincita; quando un giocatore viene veramente annientato non solo finisce il giocatore ma anche il gioco, persino se si gioca da soli. Non per niente partecipare conta più che vincere.
ciao
grazie
Rasna Lucrezio Carolus Felix

 
Top
DiodeiFilosofi
view post Posted on 2/7/2008, 19:05




E' sempre un piacere leggere questi post che confermano la tesi della "praticità della filosofia".
 
Top
DiodeiFilosofi
view post Posted on 28/10/2008, 13:03




Vi segnalo questo sito, affine al nostro,del mio amico Davide De Filippo:
http://www.filosofo.altervista.org/
 
Top
view post Posted on 6/7/2009, 05:03
Avatar

Filosofo

Group:
Member
Posts:
28,971
Location:
dall'infinito, prima stella a destra

Status:


Invio diversi post in sequenza, piuttosto datati, ma che considero eccellenti.
Nel mio pc ho molte cose, le più preziose sono i post dei miei cari amici di dialogo sul forum che mi ha formata.

Messaggio inviato in data 19/6/06
da Carolus Felix
-----------------------------------------
Titolo: Alla ricerca del silenzio perduto
-----------------------------------------
Il Silenzio perduto

Oggi traggo spunto da un piccolo brano di un pregevole libro di Galimberti: Il tramonto dell’Occidente in cui egli scrive: "In assenza di un linguaggio che non sia pre-deciso, e quindi controllato dalla razionalità del sistema, l’unica possibilità rivoluzionaria è affidata al silenzio che, tacendo, non cor-risponde alla razionalità del reale, quindi non lascia la realtà qual è, ma le impedisce di essere . Nel silenzio la coscienza si raccoglie, nel senso che ri-accoglie la voce dell’essere, senza lasciarsi dis-trarre o trascinare fuori dalla cura dell’ente . Nel silenzio si può udire la voce che chiama, dice Heidegger: "La chiamata non racconta storie e chiama senza strepito di voce. Essa chiama nel modo spaesato del tacere. E ciò appunto perché la voce della chiamata non giunge al richiamato mescolata alle chiacchiere pubbliche del Sì, ma lo sottrae invece a esse richiamandolo al silenzio del potere essere esistente".

Viviamo immersi nel rumore e nella cacofonia, dovuti non solo a suoni che, pur costituendo per noi una totalità avvolgente a cui è pressoché impossibile non cercare di assuefarsi, restano fonte di distrazione e di fastidio, ma anche esposti alla funzionalità, imperfezione e strumentalità dello stesso linguaggio che usiamo, il quale è sempre più veicolato da un uso alienato e consumistico degli oggetti che desideriamo soprattutto possedere. Telefonini, televisori, Mp3, apparati tecnologici di vario genere che ormai ci inseguono o persino fanno parte della nostra persona, quasi come protesi permanenti, ci espongono continuamente al rischio del rumore e ci ricordano incessantemente la necessità imprescindibile di essere parte integrante di un apparato che allo stesso tempo ci controlla e ci stordisce con l’uso dei suoi mezzi tecnici. Non a caso infatti, ognuno di noi oltre ad essere impossibilitato al silenzio, viene contemporaneamente inseguito e riconosciuto ovunque, con la traccia invisibile che lascia, usando le sue protesi tecnologiche.

Nonostante ciò, allo stesso tempo, il richiamo e la suggestione del silenzio non vengono meno, crescono infatti le vacanze alla ricerca del silenzio perduto: nei conventi, nei luoghi sperduti del pianeta, che ormai però non sono più tali, data l’invadenza anche del cosiddetto turismo alternativo di massa, e persino nei cinema, per fare da spettatori, per esempio, ad un film straordinario girato tutto in un monastero e che ha per dialoghi e per colonna sonora solo il silenzio, a meno che, naturalmente, qualcuno non sgranocchi il pop-corn accanto a noi.

Anche il dialogo degli internauti, mediato solo dal leggero ronzio di un computer, può essere assimilabile a questa ricerca di silenzio, anche per evadere l’imprevedibilità della chiassosa reazione dell’altro, costretto così a misurarsi con la necessità di un dialogo scritto ma inevitabilmente silenzioso, tanto che non di rado, coloro a cui sta più stretta tale dimensione, cercano di violarla con parole chiassose, irriverenti, se non addirittura volgari, tali da fare almeno nella mente, più rumore, con il vano scopo di provare a bucare il silenzio dello schermo piatto.
Però tutto questo ci appare come una fuga, più che una ricerca, e non di rado una sorta di narcosi, di palliativo per potere ottenere solo una pausa, nel ritmo incessante che un apparato di cui non siamo in grado di liberarci, ci impone rumorosamente.

Il chiasso è parte integrante del processo di maturazione di ognuno, e prova ne è il fatto che la cosa più difficile a cui si può cercare di educare un bambino, sia come figlio che come alunno, è proprio il silenzio, quasi che nascendo egli assorbisse con il trauma della nascita che lo getta fuori dal silenzio amniotico, l’horror vacui del non senso e dell’incomprensione che l’habitat umano del pensiero unico globalizzato gli impone come un brodo di coltura. E così non resta che strillare e sballare di urla nei concerti, nel traffico, negli stadi e un po’ ovunque, persino nei raduni religiosi, o di musica, motori, discoteche, e poi ancora nelle palestre a ritmi sincopati o negli infiniti lavori di ristrutturazione permanente della casa, del lavoro, della famiglia, con tutti i rumori spesso angoscianti che li accompagnano. Persino le case di riposo non di rado sono ormai piene di balere, o di palestre e comunque di anziani che temono il silenzio più della solitudine e vorrebbero tanto essere altrove, magari in una rumorosissima crociera.

Solo il silenzio resta tuttavia il luogo supremo della relazione, quello in cui l’Essere comunica nitidamente e ogni essere si manifesta semplicemente per quello che è, nella pura attenzione dell’altro, che scopre così, senza distrazioni o deviazioni sovrastrutturali, la meraviglia dell’inter- esse propiziata dalla scoperta, dal disvelamento dell’ascolto, non indotto, ma volontario e consapevole. Il silenzio infatti, come la verità, non si dà mai come assoluto ma sempre e ovunque come circostanziato e relativo al cammino di ognuno; ciò accade più o meno, come con i passi nei sentieri di una foresta che, con il loro inevitabile calpestio, suscitano reazioni impreviste e straordinarie nello stesso habitat boschivo e ci possono aprire alla meraviglia di un animale raro che attraversa o lambisce il nostro sentiero, e che solo un’attenzione vigile e costante, frutto di una cura silenziosamente e meditatamente assidua della sensibilità e della consapevolezza, può farci cogliere nella sua improvvisa e fugace bellezza.

Dove trovare dunque lo spazio e il tempo del silenzio perduto? Fuggendo in orbita? O più semplicemente ritrovando quel luogo senza spazio né tempo che ci portiamo dietro da sempre? Chissà, magari cercando solo in noi stessi, e forse la miglior vacanza auspicabile è proprio quella che possa portarci a ricercare, senza isolarci del tutto, il prezioso tesoro di un po’ di silenzio, ovunque andiamo o ci troviamo, quando ci riusciamo.
Grazie
Arrivederci
Rasna Lucretius Carolus Felix.


Carolus Felix


Firma...
accorgiti di essere nell'inter-esse per l'inter-esserci Rasna Lucretius Carolus Felix
Messaggio inviato in data 19/06/2006

--------------------------------------
Titolo: La risposta
------------------------------------

Il silenzio deve essere sempre frutto di un scelta e di una ricerca, specialmente interiore, mai un’imposizione; piuttosto che farsi zittire è preferibile far tutto il casino possibile e urlare a squarciagola.
O invece è ancor meglio condividere con altri scelte che possano ribaltare una situazione di ingiustizia, in modo determinato e costante, piuttosto che limitarsi all’urlo individuale.
Oggi un meditato silenzio è una condizione quasi rivoluzionaria rispetto al chiasso, al rumore e alla chiacchiera intrusiva che accompagnano il dominio del pensiero unico e che manifestano il nichilismo imperante.
Più difficile è condividere il silenzio senza isolarsi, comunicare con gli sguardi, con i sentimenti, e soprattutto con i fatti determinati dalle nostre azioni.

Grazie a tutti coloro che ancora mi leggono ed apprezzano.

Arrivederci
R.L.C.F.
da Valerio 18/6/06

toccante carolus.il silenzio come sfera protetta per poter assorbire meglio la vera essenza delle cose.l austero silenzio , il signore inarrivabile della verita e della contemplazione dell essere.sono d accordo con te , ora , in questi tempi malati in modo direi terminale , la volgarita di certi individui ne è la prova , e quando temono il silenzio lo vogliono frantumare con il ruomre piu assordante e dannoso , la volgarita

Messaggio inviato in data 19/06/2006
da Rabbia
------------------------------------------------------
Titolo: RE: RE: Alla ricerca del silenzio perduto
------------------------------------------------------
Mi hai fatto venir voglia di leggere Galimberti.
Hai scelto un tema su cui ragiono spesso. Ultimamente noto, con una certa esterrefazione, che non vi è luogo (in città, in casa, ecc) in cui poter godere di quella specie di solidità aerea, e interiore per riflesso (ma anche viceversa), che è il silenzio. Ovunque chiasso. Sono giunta a pensare addirittura che dover "subire" il rumore altrui ( il chiacchiericcio sordo tra conoscenti, i gridolini di sfacciata stupidità delle attuali quattordicenni, i clacson delle auto, e così via) fosse un atto di prepotenza, nei confronti miei nonché del silenzio, da parte delle diverse sorgenti di rumore. Che questo pensiero sia plausibile o meno, non so, certo è che trovo profondamente giusto quanto dici in merito al silenzio in quanto relazione. Con la stessa esterrefazione di prima, noto che è costume diffuso cianciare moltissimo sugli agenti atmosferici e le loro ripercussioni sulla possibillità di andare al mare o meno, per non parlare del fatidico "come stai?" pronunciato in una totale condizione di estraneità a se stessi e agli altri, una sorta di pietoso tappabuchi della conversazione, ideato per dimostrare che si è assolutamente in grado di aggirare l'ostacolo del silenzio, che pure, sotto sotto, ribollisce sempre, come il magma della verità.
Si prova orrore per la riservatezza, l'introversione, la timidezza, tutti alleati comportamentali del silenzio. Oggi vince chi urla di più, chi vanta il più alto tasso di egocentrismo, chi appare con più forza, con più prepotenza, con più violenza. Una violenza che sinuosamente sa celarsi dietro forme nuove, ambigue, irreprensibile agli occhi di chi non pensa.


alewitt

Messaggio inviato in data 19/06/2006

------------------------------------------------------------
Titolo: RE: RE: RE: Alla ricerca del silenzio perduto
------------------------------------------------------------
"Si prova orrore per la riservatezza, l'introversione, la timidezza, tutti alleati comportamentali del silenzio. Oggi vince chi urla di più, chi vanta il più alto tasso di egocentrismo, chi appare con più forza, con più prepotenza, con più violenza. Una violenza che sinuosamente sa celarsi dietro forme nuove, ambigue, irreprensibile agli occhi di chi non pensa."

Meraviglioso.
Ciao.
Alessandra Alewit
 
Web Contacts  Top
view post Posted on 11/7/2009, 18:03
Avatar

Filosofo

Group:
Member
Posts:
28,971
Location:
dall'infinito, prima stella a destra

Status:


messaggio anno 2006
----------------------------------------------

Titolo: RE: bellezza e dolore

IOLI HA SCRITTO:

Vieni dal cielo profondo o esci dall'abisso,
o Bellezza? Il tuo sguardo, infernale e divino,
versa confusamente il beneficio e il crimine.

Così apostrofa Baudelaire la bellezza:
irriducibile, veicolo essenziale per raggiungere
il vero e la salvezza.
Da sempre oggetto della ricerca umana che non
trova mai pieno compimento, la bellezza si mostra
nel particolare, permette alle molte cose di
partecipare di essa in gradi diversi suggerendo
la presenza di qualcosa di ulteriore, di un
principio unico e universale sostrato della
nostra realtà fenomenica.
È come se solo la scissione della realtà
permettesse l’intuizione di essa e, al tempo
stesso, quella di ogni dimensione metafisica.
In questo senso la contraddizione, che è quindi
l’essenza della Bellezza, è ciò che permette la
Conoscenza e l’accesso al Vero, all’Uno.
Ma l’esperienza del sensibile non è sufficiente.
Occorre allontanarsi dal nostro mondo, sradicarsi
da esso per conoscerlo..un po’ come i sogni dei
potenti che, volendo conquistare la Realtà, si
allontanano irrimediabilmente da essa..salvo poi
costringere con la forza gli altri a realizzare
il proprio sogno.
È questa la tragicità della ricerca: la necessità
di quello sradicamento che apre nella nostra mente
la ferita, il vuoto che rende il nostro pensiero
permeabile ad accolgliere l’Essere.
La bellezza, tramite l’incanto e lo stupore che
suscita, determina l’inizio della dolorosa e
imperfetta ricerca di ciò che è fine a se stesso
restituendo la nostra attenzione al vero.
A questo punto è necessario togliere tutti i
rimedi cui l’uomo si è legato per risolvere
l’angoscia del divenire; è necessario anche
lasciarsi scivolare nella precarietà della
condizione umana, privarsi di tutte le condizioni
e pregiudizi per approdare al nulla in cui solo è
possibile trovare la Verità.
Tramite un meccanismo che non comprendiamo la
bellezza ci invita costantemente ad allontanarci:
mentre rivela i nostri limiti ci spinge a non
rassegnarci mai ad essi in un incessante anelito
al possesso di ciò che è assoluto.
A questo punto la mia domanda: cosa distingue
l’esperienza della bellezza da quella del dolore,
ugualmente assoluta e impenetrabile?

-------------------------------
da Dodi

dolore - bellezza, già le parole stesse rivelano immediatamente dei significati estremi.
Cos'è la bellezza? Ma quale divina emozione!, è un piacere che eleva alle sensazioni più splendide.
E dove si può guardare per trovarla, dove gli occhi si devono posare perchè l'intimo ne goda?
Io personalmente mi divoro l'interno dei passeggini e delle carrozzelle, quando vado per strada. E' un momento, ma poi cammino più felice, sciolta e leggera.
Un proverbio che è appeso in casa mia dice: niente di più bello nella vita che un bimbo e un fiore, ed è vero.
Il mio terrazzo è uno straripare di piante che emanano bellezza sempre, anche perchè le curo molto.
La mia occhiata a loro non è un'occhiata, è un soffio d'amore. Ognuna mi ricorda qualcosa:
una gita, il regalo di un'amica, l'averla salvata mentre soffriva, e godo della lora vista ogni momento della giornata. Volgo lo sguardo ad una finestra, esco sul terrazzo per fare un giro ed il piacere si rinnova.
Ogni cosa è bellezza, basta saperla vedere.

Se guardi verso il cielo di notte ecco le stelle, se guardi verso il cielo la sera, ecco il tramonto, se getti lo sguardo sul mare in inverno ti pervade una calma infinita e l'orizzonte lontano ti accoglie.
Io ringrazio questa natura che ci ha elargito tanti doni che se avessimo voluto inventarli non ne saremmo mai stati capaci.

E poi il dolore. Mi è capitato di scrivere: la vita è bella con il suo dolore, e lo penso.
Non si può disgiungere la gioia dal dolore, vivono insieme, di pari passo.

C'è il momento di angoscia, di disperazione e la mano che si porge verso di te; e se non c'è quella mano c'è il coraggio e la forza che nascono dentro poichè ci è stato dato anche questo grande dono, la capacità di sopportare perchè accettare il dolore dà vita.
E alla fine tutto si può definire con un "sono maturato", "ce l'ho fatta" ed essere orgogliosi per non essersi messi in ginocchio, di aver reagito, come insegna l'esistenzialismo di Sartre, oppure come la religione stimola a fare.

Occorre essere pronti ad accogliere anche il dolore, prepararsi prima perchè arriva ad appesantire il cuore e lo spirito e non puoi dire: allontano da me questa croce.

Ciò che ci viene tolto con dolore prima era stato dato ed era gioia, per questo i due elementi non si possono dissociare fra loro e la bellezza della gioia non può e non deve scomparire nel dolore; può e deve persistere perchè le avevamo dato vita dentro di noi e le nostre percezioni e sensazioni non la possono dimenticare.

Ciao Ioli

Bel post, mi ha incantato.

p.s. Ioli - 17 anni

 
Web Contacts  Top
4 replies since 20/6/2008, 11:30   178 views
  Share